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Moby Prince: le parole del sindaco di Livorno Filippo Nogarin nella cerimonia per il 26° anniversario della tragedia che costò la vita a 140 persone.

Moby Prince: ecco le parole del sindaco di Livorno Filippo Nogarin nella cerimonia per il 26° anniversario della tragedia che costò la vita a 140 persone. Le dure parole del primo cittadino alla presenza di autorità civili, religiose e militari, ai familiari delle vittime ed ai cittadini intervenuti.

In occasione della cerimonia di questo lunedì pomeriggio, tesa a ricordare, a 26 anni dalla tragedia avvenuta il 10 aprile 1991, le 140 vittime della tragedia del Moby Prince, questo l’intervento del sindaco di Livorno Filippo Nogarin. “Saluto le autorità, civili, religiose, militari, i familiari delle vittime e i cittadini intervenuti. In particolare do il benvenuto al Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta del Moby senatore Lai, e ai senatori che hanno voluto essere con noi qui oggi. Rivolgo un caloroso abbraccio ai parenti delle vittime della strage e a quanti tra di loro continuano ogni anno ad arrivare qui anche da molto lontano, per condividere insieme il ricordo, il dolore, la rabbia ma, soprattutto, la speranza di ottenere la verità. La verità mai come adesso è un atto rivoluzionario. Desidero ringraziare anche tutti i cittadini che hanno partecipato alle iniziative organizzate in questi mesi dall’associazione #iosono141 per coltivare e tramandare la memoria, e che sono con noi anche oggi in occasione del 26° anniversario dalla tragedia del Moby Prince, avvenuta il 10 aprile 1991. Data lontana sul calendario ma vicinissima nella memoria di chi ha vissuto quel giorno e, soprattutto, di coloro che portano addosso la rabbia e il dolore dei lutti familiari. Se è vero che la gioia unisce e il dolore lega, allora sono catene di acciaio quelle che ci tengono stretti gli uni con gli altri. Questa è la nostra forza, quella che in questi 26 anni non ha mai cessato di condurci lungo la strada della verità; quella vera, non quella che qualcuno ha voluto spacciarci per tale. Poco più di due mesi fa è accaduto qualcosa di importante; qualcosa che ci sprona ad andare avanti e che rinnova la nostra forza, la determinazione e la speranza che in tutto questo tempo si sono trovate talvolta a vacillare, a essere messe alla prova dalla stanchezza e dalla rassegnazione, mai però a spegnersi del tutto. La sentenza di primo grado emessa dal collegio giudicante del Tribunale di Lucca ha stabilito infatti che a provocare la strage del 29 giugno 2009, che trasformò in un inferno la stazione di Viareggio provocando la morte di 32 persone innocenti, non fu una fatalità. Dopo sette anni e mezzo e oltre 140 udienze, finalmente ci sono dei colpevoli. Il treno carico di gas che in parte esplose non era sicuro e non poteva viaggiare, e qualcuno forse pagherà per tutto questo. Sebbene non esista un numero di anni di condanna sufficienti a ripagare il dolore dei familiari e il distacco dai loro affetti più cari, finalmente giustizia è stata fatta giustizia. Pronunciare questa parola nel “Paese delle stragi impunite” (Piazza Fontana, l’Italicus, la stazione di Bologna, Ustica, e aggiungo il Moby Prince…) dà quasi una sensazione di ebbrezza. Eppure il tema della giustizia dovrebbe appartenere proprio alla Politica e costituirne l’essenza. Non è così purtroppo, come ci racconta anche questa nostra triste storia, rimasta per anni nel silenzio, con il silenzio delle Istituzioni. Mi hanno toccato le parole usate da Loris Rispoli all’indomani della condanna dei manager delle Ferrovie nella lettera aperta che ha indirizzato a Daniela Rombi, a Marco Piagentini e a tutti gli altri familiari delle vittime della strage: “Avete affrontato una battaglia immensa e l’avete vinta voi – ha scritto – saranno pochi gli anni di condanna, ma avete vinto voi, ha vinto Viareggio, ha vinto quella massa enorme di persone che anche ieri dentro o fuori il tribunale aspettava la sentenza”. Spero possa arrivare presto il giorno in cui queste stesse parole saranno rivolte a lui e agli altri familiari delle vittime. La nebbia, quella che qualcuno dice di aver visto quella notte in mezzo al mare, evidentemente ancora non si è diradata su questa vicenda, ma confidiamo che la Commissione d’inchiesta del Senato al lavoro ormai da un anno e mezzo – e la cui istituzione, mi preme sottolinearlo, è stata votata da tutti i partiti in Parlamento – possa presto scrivere la parola fine e dare un senso al disastro del Moby Prince. Le perizie disposte dalla Commissione e condotte da alcuni professionisti stanno operando in questo senso, alle prese con atti, documenti, testimonianze, dati tecnici, consulenze, audizioni, molti dei quali erano già fin troppo chiari all’epoca del disastro ma andavano letti e interpretati con onestà e consapevolezza. A tutto questo materiale è necessario trovare ora quel filo conduttore comune che, per quanto si sia tentato inutilmente di sfilacciare e nascondere nel corso degli anni, esiste e conduce dritto fino ai responsabili. Sappiamo che è un lavoro enorme ma determinante per provare a chiudere questa ferita profonda, per questo attendiamo di conoscerne quanto prima i risultati. Vogliamo sapere quella verità che in 26 anni due inchieste, due successivi processi, una nuova inchiesta bis aperta nel 2006 non sono ancora riusciti a dare. C’è un altro aspetto che mi preme oggi sottolineare. All’epoca dei fatti i soccorsi rimasero fuori dal quadro delle responsabilità. La propagazione repentina delle fiamme, con la morte di tutti nel giro di pochi minuti – 30 al massimo – avrebbe infatti reso inutili gli eventuali soccorsi. Questo è quello che ci hanno raccontato e questo è quello che dice la ricostruzione ufficiale: i passeggeri e membri dell’equipaggio morirono in un breve lasso di tempo. Eppure troppi elementi, troppi dettagli che è inutile oggi ricordare per non aggiungere nuovo dolore al dolore, ci indicano uno scenario ben diverso. Dopo anni di omissioni, manomissioni e depistaggi, solo grazie alla tenacia, all’ostinazione ma, soprattutto, al coraggio dei familiari delle vittime, ha cominciato ad aprirsi uno spiraglio di luce nella coltre di nebbia che da troppo tempo avvolge questa tragedia. Mi vengono in mente le parole dello scrittore Leonardo Sciascia, che nelle sue opere tanto ci ha parlato del potere e del suo lato criminale: “Basta, ripeto – ammonisce nel suo romanzo “Il cavaliere e la morte” – conoscere e osservare, e avere il coraggio di opporsi al conformismo della verità ufficiale”. Di fronte al vostro di coraggio, a quello di tanti di voi che nel corso di questi lunghi 26 anni ci hanno lasciato, pure lottando per la verità, non abbiamo che da inchinarci e prendere esempio. Credo che fare chiarezza anche sulla gestione dei soccorsi sia un atto dovuto, un dovere morale prima ancora che civile nei confronti dei parenti delle vittime che hanno il sacrosanto diritto di sapere come sono morti i loro cari. Al di là di tutte le cause possibili, dei sospetti e delle ipotesi al vaglio, essi hanno – e noi con loro – tutto il diritto di sapere se a causare la morte di 140 anime innocenti è stata o no la successiva gestione della macchina dei soccorsi. Gli incidenti e le catastrofi purtroppo avvengono, per caso oppure con colpa (e allora è giusto che qualcuno paghi per essi), ma il ruolo dei soccorsi è proprio quello di contenerne per quanto possibile le conseguenze. Un ruolo determinate e delicatissimo. Quale è stato dunque il ruolo dei soccorsi quella maledetta notte del 10 aprile? Il mayday del traghetto si è perso nel vuoto per ore. Ogni volta rabbrividisco a questo pensiero, all’idea di uomini, donne e bambini prigionieri di un calvario angoscioso durato ore, in attesa di qualcuno che li portasse via da un inferno senza fine. I soccorsi sono arrivati sul traghetto diverse ore dopo lo scontro, questo è chiaro a tutti oramai, ma l’inchiesta non ha toccato questo passaggio. Auspico quindi che la Commissione possa finalmente concludere il suo lavoro anche per dare queste risposte che da 26 anni stiamo attendendo. Voglio lasciarvi con una nota di speranza, perché essa è l’unico motore dell’universo e la forza che ci spinge ad andare avanti. Qualcosa sta cambiando in questi ultimi anni, grazie soprattutto alla continua opera di sensibilizzazione che i familiari delle vittime promuovono incessantemente attraverso l’associazione, ma anche grazie al coraggio e alla determinazione di qualche onesto professionista dell’informazione. E’ di qualche giorno fa l’intitolazione della piazza di fronte alla Capitaneria del Porto di Cagliari alle vittime della strage del Moby Prince, che voglio intendere come specchio di quel cambiamento di atteggiamento da parte delle istituzioni sia a livello locale che a livello nazionale. Non è più tempo dei se, dei forse e dei punti interrogativi sospesi. Non è più tempo di accettare che dopo una morte tanto orrenda 140 innocenti (di cui mai e poi mai ci stancheremo di leggere i nomi) non debbano ottenere un po’ di giustizia. Alle istituzioni spetta il compito di promuovere ogni azione ed ogni sforzo possibili verso la verità e la difesa del loro ricordo; a noi cittadini il dovere di esserci, di partecipare, di avere il coraggio di lottare per la verità e la giustizia, e di mantenere vivi gli anticorpi contro il silenzio e il potere dei più forti. Soprattutto, di non dimenticare. Perché il ricordo è l’arma più forte che possediamo. È consapevolezza del passato e speranza per il futuro. E’ un insieme di rabbia, dolore e amore. È l’insegnamento più grande che si possa mai ricevere. E ricordare è cercare la verità, sempre”. FABIO GIORGI